Una storia che racconta la storia della salute mentale e la storia di tante ragazze
“Le degenerate” parla di salute mentale attraverso la storia e le storie di ragazze americane del 1928, ma non pensate che non centri nulla con ciò che accade oggi, non pensate che non descriva situazioni attuali, racconta dove tutto ha avuto inizio.
la trama
Ci troviamo in America prima della crisi del ’29, i fatti si svolgono in parte lunghe le strade povere di una qualsiasi città statunitense, e per la maggior parte tra le 4 enormi mura di un manicomio femminile. Qui troviamo le storie di London, immigrata italiana il cui vero nome è Filomena, che cerca di sopravvivere alla povertà e alla mancanza dei genitori, e che si trova incinta al momento del suo internamento. Rose ha la sindrome di Down e sua sorella Maxine che cerca in ogni modo di prendersene cura, si trovano qui perché “ritardate”, Alice abbandonata dalla famiglia perché ha il piede equino ed è qui inserita fra le incorreggibili perché afroamericana. Nella storia si intrecciano questioni sociali, politiche e personali; troviamo pregiudizi, l’inizio della psichiatria con test assolutamente primitivi e non scientifici. Nella storia troviamo la voglia di fuggire ma anche trovare piccole strategie per sopravvivere: una bacchetta magica, i lavori manuali, rubare il cibo.
Questa storia parla in modo semplice di storie difficili e complesse (TW: attenzione, si parla di violenza, razzismo ed aborti), ma con tanti spunti di riflessione, provo a suggerirne alcuni.
la salute mentale femminile
In questo libro troviamo solo donne: donne che lavorano nel manicomio, donne che si prendono cura delle ragazze, donne internate (sarebbe meglio dire anche bambine e ragazzine), donne con potere di decidere diagnosi e interventi, se così possiamo definirli.
Ci sembra che sia lontano dalla nostra realtà, ma non è così.
Molti studi confermano che esiste ancora una disparità di genere rispetto alla relazione fra salute e donne: Cooper et. al., 2017 hanno confermato come le donne con demenza ricevono mediamente trattamenti medici meno efficaci rispetto agli uomini con la stessa condizione. Yu, 2018 ha indagato sul fatto che alle donne vengono diagnosticati più spesso disturbi mentali e che questo comporti come alle donne vengono prescritti più spesso psicofarmaci (Bacigalupe & Martin, 2021 ).
Per non parlare poi delle neurdivergenze: Loomes et. al., 2017 hanno condotto ricerche proprio su quanto l’autismo nel genere femminile sia sotto diagnosticato. Questo perchè la maggior parte dei test diagnostici che utilizziamo non sono stati tarati, pensati e provati sulle donne. Questo crea discriminazione e crea pregiudizi ma soprattutto dolore alle donne con questi disturbi: ad esempio non venendo riconosciuta la propria neurodivergenza, aumenta il masking, cioè la modalità in cui maschero ciò che provo per adattarmi al contesto esterno e a ciò che mi viene richiesto, anche in quanto donna. Se vuoi saperne di più ti consiglio di partecipare ai corsi della dott.ssa Eleonora Marocchini che spesso si occupa anche di neurodivergenze e genere https://www.narraction.com/divergente
pregiudizi
Nel libro troviamo pregiudizi sul colore della pelle, sulla nazionalità di appartenenza, sui corpi e sul funzionamento intellettivo. Molti pregiudizi sono ancora reali e concreti, sia se si ha un disturbo mentale, ma anche se si è un operatore per la salute mentale. Possiamo trovare pregiudizi nelle persone se condividiamo un percorso personale di cura, ma anche se siamo operatori richiamo di ricorrere alle etichette perchè più immediate rapide. Ogni tanto occorre fermarsi a pensare a quali pregiudizi vediamo e sentiamo intorno a noi o il rischio è quello di essere sommersi e inglobati nel sistema.
Tutti e tutte! La storia è adatta dai 13 anni, ci sono descrizioni abbastanza crude, ma sia all’inizio che al termine del libro si trovano le spiegazioni storiche e tutte le note a riguardo. Credo anche che possa essere anche un ottimo strumento didattico per chi studia scienze umane, descrive in modo realistico i manicomi femminili di inizio ‘900 e, come descritto nell’articolo, si colleghi in modo molto concreto con tante realtà odierne riguardo la salute mentale.
“Thelma conosceva bene quel genere di ragazze. Quelle di cui il mndo non sapeva che farsene -ragazze che mordevano e grattavano la vita. E in quealche modo finivano sempre per scomparire. Come era successo alla sua. Erano tutti troppo impegnati a cercare un briciolo di pane da mangiare, e nessuno aveva il tempo di mettersi a cercare due ragazzine scomparse, due degenerate”
e perchè esplorare le emozioni è il modo migliore per conoscerle…
Le emozioni non si insegnano, si vivono, si affrontano, si scoprono, si parlano, si esplorano. Per questo motivo uno dei miei albi preferiti per parlare di emozioni è questo: “La mappa delle mie emozioni” di Bimba Landmann edito da Camelozampa puoi trovarlo qui!
Questo albo è un ottimo esempio di come le emozioni siano sfumature in cui le terre esplorate diventino così simili e così diverse. Abbiamo la terra della speranza in cui troviamo la “strada che guarda lontano” e il “piccolo lago delle idee”. Una terra in cui ritroviamo immagini e parole che spesso vengono utilizzate quando si parla di psicoeducazione alle emozioni, parole che bambini e ragazzi riportano spesso nelle loro narrazioni, ma che altrettanto spesso vengono poco ascoltate e giudicate come parole da sognatori. Quasi che quelle parole non fossero reali emozioni.
Le terre della paura, sono tinte di giallo e raccolgono il batticuore, il terrore, il castello pallido e la strada senza via d’uscita. Quante di queste parole vengono usate da bambini e ragazzi quando parlano delle loro paure: paure del futuro, della scuola, nelle relazioni. L’immagine delle terre in cui viaggiare ci permette di aprire un punto importante delle emozioni e della psicoeducazione: non esiste una scala gerarchica che va in un’unica direzione, ma c’è una esplorazione che ci permette di conoscere e sperimentare gradi diversi in momenti diversi, delle nostre emozioni.
Questo albo racconta mille storie diverse, racconta storie lunghissime in cui il disgusto diventa inaccettabile, e storie di pochi secondi in cui il Mare Esultanza, diventa l’unico orizzonte che abbiamo.
Questo albo può essere una mappa preziosa per iniziare un percorso di psicoeducazione emotiva; uno strumento in cui rispecchiarsi o da cui prendere parole nuove, un disegno in cui rispecchiarsi, ma anche una partenza per scrivere la propria mappa delle emozioni.
Spesso mostro queste immagini a bambini e ragazzi dicendo loro “da che punto della mappa vorresti partire?” e già da questa scelta mi accorgo cosa preme di più a loro, in quel momento e, cosa vogliono evitare.
Certo non basta un libro e poche chiacchiere, oltre al primo passaggio ci vuole conoscenza e professionalità, occorre un professionista che conosce queste terre, che le ha esplorate a sua volta e che riesca a guidare i nuovi esploratori spesso spaventati o incuriositi.
quando si possono esplorare le emozioni, e quando è necessario farlo
In ogni momento è possibile fare un intervento psicoeducativo mirato, ma ci sono momenti in cui è più importante, momenti in cui è fondamentale.
Pensiamo a un bambino o una bambina che fatica a stare con i compagnǝ perchè si sente spaventata o non compresa, sarà importante capire e dare le giuste parole a quella sensazione. Altri potrebbero avere difficoltà nel rapporto con il loro corpo, ma se non riescono a trovare la giusta descrizione per quello che sentono e rischiano di trovare, come unica strategia, comportamenti negativi che possono peggiorare il loro benessere mentale e anche fisico.
Se unǝ bambinǝ o unǝ ragazzǝ faticano a restare attenti, ma non conoscono cosa sia e che nome abbia quella sensazione che li prende ogni volta che a scuola vengono rimproverati per questo, non potranno migliorare le loro capacità attentive, perchè non riusciranno a condividere ciò che sentono e a cosa è collegato.
Per questi e molti altri motivi ho scelto di parlare di psicoeducazione emotiva in un webinar che potete trovare a questa pagina.
Esplorare assieme a bambini ragazzi le emozioni è un viaggio entusiasmante ma anche delicato, per questo non possiamo lasciare nulla al caso.
Romeo: un ragazzo che non corrisponde a ciò che la società si aspetta da lui
Romeo è un ragazzo che ama la musica degli anni ’70, che preferisce il silenzio del negozio dello zio alle feste con i coetanei. Romeo inizia la sua storia in ospedale, e poi ci racconta in versi cosa e chi lo ha portato in quel luogo così estremamente bianco.
Romeo non è un ragazzo arrabbiato, non esprime la sua rabbia con parolacce, non ricerca esperienze forti, cerca la vera amicizia ma è circondato dal gruppo. Da un gruppo che non lo accetta per ciò che è, perchè accettarlo vorrebbe dire vederlo. Romeo vive in una famiglia che sembra “normale”, una famiglia che lo vede come una persona sfumata ma senza sfumature.
Romeo conosce Justine e con lei si sente libero di essere se stesso e non quello che gli viene richiesto perchè un ragazzo, maschio nella nostra società non può essere come lui si sente.
Leggere in versi, come una canzone
La storia di Romeo ci viene raccontata usando una scrittura in versi, una specie di canzone o di messaggi. Questo tipo di scrittura rende il ritmo della narrazione ritmato e riesce ad esprimere con poche parole concetti complessi, emozioni contrastanti anche quando si tratta di descrivere un atto di cyber bullismo che Justine subisce.
perchè leggere questo libro
Questo romanzo parla a tutti i ragazzi e alle ragazze che non si ritrovano nelle storie estreme, che hanno bisogno di un racconto delicato in cui ritrovare le proprie sfumature. Un racconto in cui Romeo rappresenta i ragazzi che parlano poco, che cercano di stare con poche persone che li fanno sentire bene, ragazzi che a volte si trovano in situazioni estreme, ci si trovano per caso, perché aiutano altri o perchè le cose delle vita si susseguono in modo inaspettato.
Per gli adulti, è un romanzo che apre gli occhi sui ragazzi che stanno in disparte, quelli silenziosi, quelli che sembrano niente, quelli che ci dimentichiamo e che invece hanno bisogno di noi. Romeo aveva bisogno che i suoi genitori parlassero con lui, che raccontassero la loro storia. Romeo aveva bisogno di amici che lo ascoltassero e non lo giudicassero, Romeo non è molto intelligente, non è molto bello, non è molto talentoso… ma è molto sensibile, una sensibilità che lo rende quasi niente.
quando il modo è più importante del contenuto
A volte per parlare di adolescenza pensiamo che il tema centrale del racconto sia la cosa più importante, che sia quello che rende un racconto importante, invece a volte il modo con cui la scrittura esprime emozioni ed azioni, fa la differenza del libro, della storia.
Come i libri vengono scritti esprimono le emozioni che i personaggi condividono con il lettore; non abbiamo bisogno di avere storie sempre estreme che parlano di adolescenza, abbiamo bisogno di conoscere la realtà di tutte le adolescenze.
Spesso nei corsi di formazione, nei manuali, si spiega come comunicare alla famiglia le diagnosi e i disturbi, ma è fondamentale comunicare e condividere i percorsi riabilitativi e le diagnosi anche con i bambini e i ragazzi.
Il termine che viene utilizzato per definire questa capacità è self-advocacy “La capacità di un individuo di comunicare, trasmettere, negoziare o affermare efficacemente i propri interessi, desideri, bisogni e diritti. Implica prendere decisioni informate e assumersi la responsabilità di tali decisioni” (VanReusen et al., 1994).
Lavorare assieme ai bambini e ai ragazzi significa anche renderli partecipi del loro percorso, spiegare cosa stanno facendo e la motivazione. La consapevolezza del fare certe attività o certi discorsi, permette alla persona di riflettere sul suo discorso, sempre tenendo in mente l’età e lo sviluppo emotivo e cognitivo personale. Ora vorrei condividere con voi qualche esempio che spesso mi è stato utile per spiegare a bambini e bambine, un disturbo, una fragilità o il perchè del percorso che avremmo iniziato insieme.
PARTIAMO DAGLI ALBI ILLUSTRATI
Uno degli albi illustrati che preferisco in assoluto è “Un trascurabile dettaglio” edito da Terre di Mezzo e scritto da Anne Gaelle Balìe e Cisl.
In questo albo il protagonista ha un difetto che non gli consente di scrivere e leggere bene e a causa del quale viene messo spesso in punizione e fatica a trovare amici che lo comprendono. Poi arriva un dottore, un dottore che con una “formula magica” rende quel difetto un trascurabile dettaglio che non è più ingombrante, non dà più fastidio ma diventa semplicemente parte della persona.
Questo albo si presta moltissimo con bambini e bambine che hanno un Disturbo dell’apprendimento (DSA), proprio perchè si rispecchiano nel protagonista. Può essere letto in condivisione per poi riflettere su quale “filo” , rende difficoltoso imparare (la lettura lenta, la difficoltà nei calcoli, la scrittura poco comprensibile…), quanto questo filo sia davvero ingombrante e spiegare quali strumenti possono aiutarci a rendere questo filo sempre più piccolo, meno ingombrante, meno invadente.
In questo albo possiamo trovare tanti ganci con la realtà emotiva o rispetto all’ambiente che circonda i bambini.
uno strano elettrodomestico
A volte ascoltando e parlando con bambini e ragazzi, ci accorgiamo che ci sono strumenti quotidiani che si prestano ad essere ottime metafore… come è accaduto a me con il robot aspirapolvere. Esatto, quel piccolo elettrodomestico che aspira i pavimenti, girando autonomamente per casa.
Questo strumento, può essere preziosissimo per spiegare che ci sono strumenti che ci aiutano a svolgere un compito in meno tempo e con meno fatica; uno strumento che tutti vedono ma che nessuno considera qualcosa di sbagliato. Ho usato più volte questa metafora per spiegare perchè è importante usare degli strumenti compensativi ( computer, tavola pitagorica, o anche un semplice memo sul telefono per ricordare gli appuntamenti senza ansia!). Ragionare su ciò che ci circonda, ci permette di vedere tutto in un’ottica nuova, più normale, rassicurante e concreta allo stesso tempo.
cervello e lampadine
Ogni disturbo, ogni fragilità, ogni emozione, parte dal cervello. Occorre spiegare a bambini e ragazzi come è fatto il nostro cervello, perché pensiamo, o ci comportiamo in un certo modo, cosa succede quando siamo in ansia, o arrabbiati o preoccupati, ed ecco altri due libri che possono aiutarci a spiegare come funziona il nostro cervello e che in noi, non c’è nulla di sbagliato:
“C come cervello” Nomo edizioni
“cosa c’è nella mia testa?” Il Castoro
Il punto sul “sentirsi sbagliato” è fondamentale per condividere progetti. Non dobbiamo “aggiustare, cambiare” dobbiamo condividere che possiamo aiutare a sentirsi più autonomi, più efficaci, sentirsi sicuri di sé, diminuire la fatica nel svolgere un’attività o dare più strumenti per poter scegliere ciò che è meglio, ciò che piace.
Spiegare prima di ogni attività il motivo per cui si fa, il modo con cui la faremo, rende partecipe l’altra persona, non subisce qualcosa di già deciso, non si sente uno spettatore, ma un attore del proprio percorso.
Di seguito lascio una rfiflessione nata durante un colloquio qualche anno fa, la lascio proprio così, perchè spiegare in modo semplice richiede uno sguardo attento, creatività e tanta conoscenza reale di ciò che di cui stiamo parlando.
“Serena, perché leggo più lento dei miei compagni di classe?”
Dentro il tuo cervello ci sono tante LUCINE come quelle che metti sull’albero di Natale hai presente?! Sono tutte unite in fili e la cosa bella è che quando ne accendi una accendi anche tutte le altre. Ad esempio quando stai attento e ascolti la maestra ricordi quello che dice e questo accende un sacco di lucine. “È vero, sono bravo ad ascoltare! Anche le storie!”
Quando leggi più lento vuol dire che una lucina si accende più lentamente delle altre quindi fa un po’ fatica a fare luce. A volte basta l’allenamento e poi la lucina si accende veloce come le altre, altre volte invece la lucina rimane un po’ più lenta in questo caso si chiama dislessia. Non è un problema tuo non è che non sei motivato, o che non ti impegni abbastanza, semplicemente quella lucina è nata così…
Ma sai qual è un’altra cosa bellissima del nostro cervello? E che quando accendi una lucina si accendono anche tutte le lucine dello stesso filo quindi ad esempio se tu stai molto attento diventi più curioso e quindi impari più parole e riesce a spiegarti meglio e trovi tanti modi per risolvere i problemi.
In ogni caso ricordati che tu puoi sempre aggiungere altre lucine ai fili, che quindi non faranno più vedere la lucina fioca, ma tutti insieme mostreranno una grande luce.
Quando parliamo di salute mentale tendiamo a parlarne in modo sbrigativo e semplicistico e a dire che “stiamo bene perchè non abbiamo nessuna malattia mentale”…ma in realtà diciamo così perchè ci hanno educato, e ci hanno spiegato, che si sta bene, quando non c’è nessuna malattia; ci hanno spiegato che se ci impegniamo e ci sforziamo, tutto andrà bene e noi staremo bene.
Ci hanno educato al controllo della nostra salute mentale e non ad osservarci. Questo fa parte dei pregiudizi presenti nella nostra società sulla salute mentale.
Allora partiamo da qui: la salute mentale è un processo continuo di equilibrio che oscilla dalla malattia alla completa salute e cambia costantemente nell’arco di una giornata e nel corso di tutta la nostra vita.
Stare in equilibrio significa capire ciò che pensiamo, ciò che proviamo e metterlo dentro all’ambiente in cui si troviamo per sentirci soddisfatti, consapevoli e capaci di poter affrontare la vita di tutti i giorni.
Parlare di salute mentale non è solo una questione da adulti e per gli adulti, deve anche essere una priorità per bambini e ragazzi perchè possano trovare attorno a loro tanti adulti capaci di parlare loro in modo normale di salute mentale; per fare questo occorre superare qualche pregiudizio partendo proprio dagli adulti.
cosa significa avere problemi di salute mentale?
Nell’immaginario comune, e quindi anche per i bambini e i ragazzi, chi ha “problemi di salute mentale” è uno strano, pazzo, imprevedibile, bizzarro, fuori di sé… questa è la narrazione che abbiamo sentito, e spesso ancora sentiamo quando parliamo di salute mentale. Ma è anche la narrazione che spesso vediamo in film e serie tv, che leggiamo sui libri e che troviamo sui giornali; ma la salute mentale parte dal concetto di equilibrio della persona fra se e l’ambiente che lo circonda, e tutti noi siamo persone dentro un ambiente, tutti noi abbiamo momenti in cui l’ambiente risulta più difficile da comprendere e momenti in cui invece ci troviamo bene.
Pensiamo quindi a un bambino, può avere luoghi e persone che lo fanno sentire accolto, benvoluto, intelligente… e luoghi che invece lo fanno sentire di troppo, non accettato, inadeguato e questo causa sofferenza, causa tristezza, iniziamo a porsi delle domande “perchè? cosa ho sbagliato? Cosa posso fare per cambiare questa situazione!”, oppure non ci si pone delle domande specifiche ma si agisce e si cerca di trovare dei comportamenti e delle azioni che portano a non sentire questa sofferenza o frustrazione. Ecco quando mostriamo ai bambini il loro sentire, i loro comportamenti, le differenze che provano fra una cosa che riesce facilmente e una che invece causa qualche difficoltò ci stiamo occupando della loro salute mentale.
Non la trovate una cosa estremamente normale?!?!
Esistono anche bambini e ragazzi però, che faticano a fermarsi in un punto di equilibrio e che possono presentare delle difficoltà maggiori, sia per motivi ambientali o fattori di rischio ( ambiente, traumi, cambiamenti…) sia perchè possono avere una difficoltà neuro biologica e presentare disturbi come difficoltà emotive, attentive o comportamentali.
In questi casi è molto importante non dare un giudizio o cercare un colpevole per ciò che è accaduto, è molto più importante invece capire a chi rivolgersi e quali sono i percorsi migliori da seguire per tornare… in equilibrio.
ma non è troppo presto per parlarne con i bambini o per iniziare un percorso?
Questa è una delle domande che sento più di frequente. Perché abbiamo paura di parlare di pensieri ed emozioni ai bambini? Forse non le provano?
Certo che provano emozioni e pensano, cambia il modo in cui possono essere consapevoli dei loro pensieri, ma poterli accompagnare in questi processi, li renderà più flessibili e sicuri di sé. Il lavoro che viene svolto con i bambini su questi ambiti, viene affrontato attraverso i giochi, le storie, l’ascolto, la creazione di oggetti o la condivisione di parole.
si parla troppo di salute mentale!… o se ne parla male?!?
Questa frase è una verità, ma anche un pregiudizio! In questo periodo storico, specie sui social, si parla molto di salute mentale, ma si usa come se fosse uno slogan, qualcosa che serve per ingaggiare più persone… manca però la reale conoscenza di ciò che è!
Non è solo importante parlare di salute mentale ma è il modo in cui farlo che fa davvero la differenza. Su questo punto ho ragionato proprio questa mattina in una scuola in cui ho svolto un intervento sulla salute mentale e sui costi che ne derivano per la società. I ragazzi e le ragazze presenti hanno dichiarato la loro poca conoscenza in merito perchè nessuno ne parla, non si arriva nei luoghi in cui loro si trovano, e quello che vedono lo giudicano banale..non è ciò che sentono e vivono.
Per iniziare ripropongo alcuni libri utili per capire la propria mente, e a togliere qualche pregiudizio sulla salute mentale di bambini e ragazzi
Fare prevenzione per la salute mentale, significa anche aiutare i bambini e i ragazzi ad avere un’immagine positiva del proprio corpo. Significa iniziare a mostrare, a far vedere, non solo un modello definito di corpo, ma mostrarne molti, tanti quanti se ne trovano nella realtà. Avevo già parlato di questi temi che potete trovare qui https://www.serenaneri.it/category/prevenzione/ . In questo articolo cerco di spiegare in modo chiaro e specifico il concetto di immagine corporea nei bambini e nelle bambine.
che cosa si intende con immagine corporea
Per immagine corporea si intende il modo in cui sentiamo e pensiamo il nostro corpo, ha a che fare con: la grandezza, forma, vestiti, e per le persone con disabilità anche con gli strumenti che servono e sono per loro un aiuto (sedia a rotelle, apparecchio acustico, protesi).
Su questo ultimo punto è davvero importante soffermarsi: spesso non si tiene in considerazione l’aspetto della percezione del proprio corpo per le persone disabili, si pensa che siano strumenti “che servono” e che quindi non vengano mentallizzati e pensati come parti del proprio corpo. Sono invece aspetti importanti di cui tenere conto, soprattutto nei bambini che spesso, proprio in questa fascia di età, iniziano ad utilizzare questi aiuti per il loro corpo.
La propria immagine corporea viene influenzata dalla società, dalla famiglia, dai social, dalla tv, dai libri, dai commenti delle persone; per questo è un elemento estremamente dinamico e necessario per sviluppare una buona idea di sé, e per migliorare anche la propria autostima.
perchè parlare di immagine corporea con i bambini?
L’immagine corporea nelle bambine e nei bambini, è uno dei fattori di rischio che possono causare possibili disturbi mentali in adolescenza e in età adulta. Persone con un’immagine negativa del proprio corpo rischiano non solo di sviluppare disturbi alimentari, ma anche di aumentare i livelli di ansia, stress e quindi hanno maggiori probabilità di sviluppare disturbi depressivi.
Avere un’immagine positiva del proprio corpo può diventare un fattore protettivo per evitare disturbi mentali gravi, ma anche disturbi temporanei, che però possono influire sulla socialità ( ansia sociale, disturbi alimentari).
cosa significa avere un’immagine del proprio corpo positiva
Pensate a un bambino o a una bambina, che pensa di essere grassa o grasso, che pensa di essere mal vestita o mal vestito, un bambinə che pensa di non poter giocare perchè il suo corpo è diverso dalla maggior parte dei corpi che vede intorno a sé. Pensate a un bambinə che pensa continuamente allo spazio che occupa, o si preoccupa di ciò che gli altri potrebbero dire sul suo corpo… come si sentirebbe? E voi come vi sentireste?
Le emozioni che emergono sarebbero, probabilmente, di tristezza, rabbia, ansia, inadeguatezza. Avremmo voglia di nasconderci, di evitare quella cosa, saremmo sempre in ansia per capire come gestire questa difficile situazione. Ecco perchè abbiamo bisogno di sviluppare il più possibile un’immagine positiva del nostro corpo, ecco cosa significa:
essere felici del proprio corpo per ciò che è
sentirsi a proprio agio con il proprio corpo
essere soddisfatti di come ci vediamo
essere consapevoli che “il corpo perfetto” non esiste
riconoscere che ciò che sono come persona è più importante di come appaio
non lasciare che l’apparenza detti le leggi della mia vita
essere consapevole che il benessere fisico del mio corpo è più importante di come appare
in che modo Aiutare bambini e ragazzi ad avere un’immagine positiva del proprio corpo
Uno dei primi passi per raggiungere questi obiettivi, è quello di evitare ogni forma di giudizio. È importante che gli adulti siano di esempio e non commento i corpi di altre persone per strade, che si sottolinei la capacità di fare qualcosa o di caratteristiche personali, rispetto al corpo ( ad esempio è meglio dire “ti sei impegnato moltissimo in questo compito” piuttosto che “ha un corpo davvero perfetto per fare questo sport”).
I bambini devono sapere che nessuno ha il diritto di dire loro chi dovrebbero essere o come dovrebbero apparire, dobbiamo coltivare i loro punti di forza e la loro capacità di risolvere e superare le difficoltà, sottolinenando l’unicità di ognuno e ognuna.
Il corpo deve essere descritto non solo in termini di bellezza, ma anche rispetto a tutto ciò che di comune e quotidiano riesce a svolgere, sottolineiamo quanto i bambini e le bambine hanno corso veloce, o hanno costruito grazie alle loro mani in modo preciso. Mostriamo ciò di cui il nostro corpo è capace, non solo perchè è atletico o allenato, ma perchè è un corpo creato per il movimento. La cura del corpo non deve passare solo come un fattore estetico, ma come un momento di benessere con se stessi; la cura del proprio corpo non è attraverso i trucchi o le feste a tema spa, la cura del nostro corpo è essere consapevoli della piacevolezza di una doccia calda, del profumo del dentifricio quando ci laviamo i denti… essere consapevoli di ciò che il nostro corpo sa fare significa mostrare a noi stessi il nostro corpo per quello che è realmente.
Ogni volta che pensiamo al lutto, pensiamo subito alla morte delle persone, pensiamo che si possa provare solo per altri il sentimento angosciante del lutto. “Normale e complicato” le storie dei lutti…
Si pensa anche che i bambini e i ragazzi non possano sentire realmente un lutto “ lo prenderanno come un momento, cosa vuoi che cambi per loro…” o che non possano capire, e quindi ,invece di ascoltarli, inventiamo noi le storie per il loro dolore.
“Normale e complicato” con quella e che unisce e che non decide nulla, senza quell’accento che gli dà peso, che vuole farlo esistere, ma una piccola e che unisce la normalità alle cose complicate. Questo albo unisce il dolore e il tempo che ne occorre, la capacità di sentire il dolore e provare a lavorare assieme a lui, ma anche l’idea di lasciarlo da solo.
lutto non è solo in caso di morte… è normale e complicato
Il lutto può essere anche la perdita di un ruolo sociale che avevo, pensiamo ai ragazzi che cambiano scuola, compagnia di amici, o si trovano in situazioni famigliari che cambiano in modo rapido e imprevisto. Il lutto può essere il venire a conoscenza di avere una malattia, non solo fisica, ma anche mentale.
Pensate che sia semplice accettare che ho un disturbo dell’apprendimento, o un disturbo alimentare, o un disturbo mentale? Non lo è, perché il lutto che vediamo in queste pagine riprende il tema dello specchio in cui non mi riconosco, ma in cui vedo chi sono ora. Mi piace questa immagine dello specchio, in cui la persona che si faccia alla superficie illuminata crede di essere in un certo modo, pensa ai propri tratti del viso, la propria statura, la forma del proprio fisico; ma quando vede la propria immagine riflessa, vede il suo lutto, vede la sua trasformazione ingarbugliata e sconosciuta.
un albo per molte interpretazioni
Questo albo illustrato lascia aperte molte interpretazioni, ed è uno dei motivi per cui mi piace moltissimo, un albo che parla di utile e di inutile, di pesante e leggero, che raffigura un uomo nero pesante e una piuma colorata, leggera. Il peso di una scelta, la leggerezza del cambiamento, il peso del cambiamento e la leggerezza di poter scegliere. Su questo mi vengono in mente i tanti ragazzi che per anni hanno pensato di scegliere quella scuola, quel lavoro, quella relazione, e invece si trovano a fare i conti con ciò che sono realmente diventati, e vivono il lutto di vedersi cambiati o di dover cambiare il proprio bagaglio personale.
Questo albo creato con poche parole e tratti decisi, è frutto di un lavoro di relazioni terapeutiche della dottoressa Sara Ancois ( qui trovate una sua intervista https://metismagazine.com/2022/08/05/intervista-a-sara-ancois-autrice-di-normale-e-complicato-ovvero-come-la-mente-ci-protegge-dagli-effetti-del-dolore/ ) che mostra il lutto come relazione di scambio e non come esperienza solitaria. La nostra società è ancora piena di stereotipi per cui il dolore è negativo, devi gestirlo da solo e in fretta. Abbiamo bisogno di albi come questo che parlano a molti, parlano delle parole che il lutto può aiutare a dire, al modo in cui possiamo ma non dobbiamo, sentirci.
Il lutto è un processo in cui gli strumenti (occhiali, scarpe, Sacchi…) hanno valore per un breve tempo, ma poi diventano pesanti e difficili da pensare in modo distante da me.
Il lutto è normale, e certamente complicato, il lutto unisce con una E e non deve diventare una persona con una “è”.
I libri per bambini e ragazzi, i cartoni animati televisivi, sono pieni di disegni. A volte sono disegni bellissimi e curati, altre volte invece sono abbozzati e stereotipati. Ma c’è sempre una cosa che manca: la rappresentazione reale dei corpi! Perchè è importante parlarne? Perchè le immagini creano i mie pensieri.
In questo articolo vedremo alcuni stereotipi sul corpo dei bambini e delle bambine, e come questo influisca la mentalizzazione, cioè l’abilità di considerare le intenzioni e gli stati mentali dell’altro e di come i nostri comportamenti influiscano sugli altri.
gli stereotipi sui corpi grassi deə bambinə
Qualche giorno fa ho provato a fare una ricerca su Google digitando solo le parole “bambino grasso” e l’immagine che vedete sotto rappresenta il risultato ottenuto. I bambini grassi sono già stigmatizzati nonostante “grasso” sia solo un termine descrittivo del proprio corpo. Ma anche se leggiamo la definizione del dizionario: “agg. e s. m. [lat. crassus, grassus]. – 1. agg. a. Di persona o animale che, per effetto di una troppo ricca alimentazione, o talora per qualche disfunzione organica, ha il tessuto adiposo abbondante“.
Quindi nella definizione si trova già il motivo che determina la forma del corpo di una persona, di conseguenza questo vale anche per i bambinə e ragazzə. Il termine “grasso– grassa” porta con se una serie di pregiudizi costruiti su una società che non accetta che ci siano corpi diversi dall’ideale di bellezza proposto (ne avevo parlato anche qui https://www.serenaneri.it/pssst-i-pensieri-segreti-di-viola-e-il-suo-corpo/ ). Quindi secondo la nostra società e le ricerche che vengono fatte maggiormente su Google i bambini e le bambine grasse: mangiano e bevono sempre, non fanno attività fisica, sono lentə e pigrə. Queste stereotipi sono presenti nel modo in cui parliamo, nel modo in cui ci rapportiamo agli altri e anche come i corpi delle persone vengono disegnati.
gli studi scientifici: ovvero non mi sono inventata niente di nuovo
Perchè partire dagli studi scientifici? Perchè ci permettono di capire quanto il fenomeno sia importante, esteso e concreto sulla vita di bambinə e ragazzə.
I bambinə vivono nella società e per questo assorbono anche le categorizzazione che gli adulti propongono, secondo la Teoria Socio-cognitiva di Aboud (1988, 2003) “l’intensità degli stereotipi e degli atteggiamenti negativi dei bambini verso i membri del gruppo socialmente svalutati cambia con l’età, in linea con il loro sviluppo cognitivo“( https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5397522/). Questo significa che essere in sovrappeso o obesi nella nostra società è una delle condizioni socialmente più svalutate e stigmatizzate tra i bambini. Questo comporta che i bambini in sovrappeso e obesi abbiano maggiori probabilità di essere svalutati personalmente e socialmente rispetto ai loro coetanei con un corpo conforme. Nello studio del link che trovate sopra, hanno riscontrato che già dai 2 anni i bambini iniziano a creare uno stigma contro il corpo grasso, e che con l’avanzare dell’età, sono cresciuti sempre di più i comportamenti che allontano i bambini normopeso dai bambini grassi. Tra i 5 e gli 8 anni inizia a diminuire la probabilità di associare l’immagine di un corpo grasso alle abilità atletiche, artistiche e sociali.
Questo studi assieme ad altri (Holub, 2008; Kornilaki, 2015) hanno dimostrato come la percezione corretta del proprio corpo da parte dei bambinə grassə aiuterebbe nella socializzazione nel gruppo dei pari. Questo però accade raramente perchè il fenomeno sociale è così forte e radicato, da non permettere un cambiamento reale in questa percezione.
…e arriviamo alla rappresentazione dei corpi…
Come possiamo aumentare la consapevolezza di un corpo grasso senza i pregiudizi che ne derivano? Abbiamo bisogno di cambiare il modo in cui la società e le persone, percepiscono i corpi. Questo può iniziare dalle immagini presenti in libri, giornali, cartoni animati.
Nel libro “Bodies are cool” (disponibile solo in inglese ma traducibilissimo per leggerlo ai bambini) sono presenti corpi diversi: per età, colore, forma, disabilità, occhi, pelle, presenza di peli, smagliature, cicatrici….
Mostrare immagini così ricche della diversità che troviamo nella realtà, permette a tutti di sentirsi rappresentati. Permette di sentirsi capaci, permette di avere la possibilità di dire “questa bambina assomiglia a me!… guarda anche lui ha una cicatrice”.
E anche su questo ci aiuta un articolo scientifico https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/18089260/ che dimostra come l’esposizione maggiore a esempi e modelli in cui la persona grassa è sempre definita come pigra, brutta, incapace, incida sulla percezione e sul giudizio che darò a una persona grassa nella vita reale.
capire cosa c’è nella mente altrui
Queste rappresentazioni, costanti, continue e sempre uguali, incidono sul tipo di pensiero che abbiamo degli altri, quello di cui parlavo all’inizio: la mentalizzazione. Questa abilità mi permette di comprendere i pensieri e le emozioni dell’altro, ma viene modificata quando i pregiudizi che ho sono così forti, da pensare in modo unico che “quella persona può essere solo in quel modo”… è la base dello stigma. Se fin da piccoli riceviamo un solo modello, una sola possibilità di pensiero, siamo portati a non vedere più l’altro per l’individuo che è, ma solo per ciò che noi, erroneamente, pensiamo possa essere.
quindi: serve prevenzione!
Avere la possibilità di avere immagini reali, varie, rappresentative di corpi diversi fra loro, ma uguali a ciò che vedo nel mondo ( case editrici di libri scolastici dico anche a voi!)
Spiegare da dove derivano certi stereotipi, perchè siamo portati a pensare che una persona grassa sia pigra o svogliata, aiutare a comprendere la società in cui viviamo
Sin da piccoli motivare e incentivare al disegno vero del proprio corpo, non è sempre magro, non ho sempre le gambe lunghe e la vita sottile, e non è detto che quel canone rappresenti sempre la bellezza!
Vedere il proprio corpo, toccarlo, ascoltarlo e non solo giudicarlo o confrontarlo
iniziare a parlare sul luogo di lavoro, nelle scuole (come vorrei che questo articolo entrasse in tantissime scuole!), con gli amici di queste tematiche e creare informazione
Questo libro parla della storia della famiglia Galvin: Don e Mimi sono genitori di 12 figli (10 maschi e 2 femmine) vissuti dagli anni ’40 ad oggi in USA. Appena ho iniziato a leggere “Hidden Valley Road” ho pensato che è un libro perfetto per parlare di prevenzione psichiatrica.
La famiglia Galvin non è ritenuta speciale solo per i 12 figli, ma per il fatto che di questi 12 figli, a 6 è stata diagnostica la schizofrenia, o in tempi successivi un altro disturbo mentale (psicosi, disturbi schizoaffettivo). La famiglia Galvin è stata una delle famiglie grazie alla quale la Dottoressa Lynn Delisi e il Dottor Robert Freedman, hanno potuto studiare le basi genetiche della schizofrenia (qui trovate un nuovo studio italiano che si basa su questi studi https://www.jpsychopathol.it/wp-content/uploads/2015/08/Olgiati1.pdf ).
Il libro sembra in parte romanzo e in parte diario di cronaca, alterna la storia della famiglia Galvin, con le ricerche scientifiche attive in America e nel mondo, sulla schizofrenia. Ma ci sono alcuni temi che penso siano affrontati in modo davvero esaustivo nel libro e che aprono alcune considerazioni e domande anche a noi oggi.
Tratto dal libro
Ma i Galvin non sono mai stati una famiglia come le altre. Negli anni in cui Donald diventava il primo e più evidente caso, altri cinque fratelli stavano silenziosamente crollando. C’era Peter, il figlio più piccolo e il ribelle di famiglia, ossessivo e violento, che per anni avrebbe rifiutato ogni aiuto. E Matthew, un ceramista di talento che, quando non era convinto di essere Paul McCartney, credeva che il sole lo seguisse ovunque. Poi c’era Joseph, il più mite e riflessivo dei ragazzi malati, che sentiva delle voci da epoche e luoghi diversi, voci per lui reali come la vita stessa. E c’era Jim, il secondogenito anticonformista e acerrimo nemico di Donald, che si sarebbe rivalso sui membri più indifesi della famiglia, soprattutto Mary e Margaret. Infine c’era Brian, il perfetto Brian, la rockstar di famiglia, che teneva nascoste a tutti le sue paure più profonde e che in un imperscrutabile, plateale atto di violenza avrebbe cambiato le loro vite per sempre.
Kolker, Robert. Hidden Valley Road (Italian Edition) (pp.12-13). Feltrinelli Editore.
SALUTE MENTALE è FEMMINISMO
Partiamo dalla questione “Madre“. Sì perchè la madre da sempre svolge il ruolo di capro espiatorio per ogni patologia psichiatrica. In questo caso ci rifacciamo alla teoria, decisamente molto in voga nel ‘900, della madre “schizofrenogena“. Secondo questa teoria ( ma sarebbe meglio dire idea) i figli diventano schizofrenici per colpa della madre che risulta o troppo ansiosa e attaccata ai figli, o troppo distante e anafettiva. Il ruolo sociale di “madre”, diventava per una donna, anche l’accusa senza possibilità di difesa, per ogni disturbo mentale dei propri figli. Essere madre portava già al suo interno il pregiudizio sistemico, secondo cui ogni disturbo, malattia, devianza dalla società o dalla normalità, fosse colpa di un errata, ma mai sostenuta, genitorialità materna.
Già nel 1940 Fromm-Reichmann aveva lanciato l’allarme contro “la pericolosa influenza della madre tirannica sullo sviluppo dei figli”, definendo simili madri “il principale problema delle famiglie”. Otto anni dopo, lo stesso anno in cui Joanne Greenberg divenne sua paziente, Fromm-Reichmann coniò un termine che sarebbe stato affibbiato alle donne come Mimi Galvin per decenni: quello di madre schizofrenogena. Era “soprattutto” una madre di questo genere, scriveva, la responsabile del “grave snaturamento e senso di rifiuto iniziali” che rendevano un paziente di schizofrenia “terribilmente diffidente e risentito nei confronti delle altre persone”. Fromm-Reichmann non era di certo la prima psicanalista a incolpare la madre di qualcosa.
Kolker, Robert. Hidden Valley Road (Italian Edition) (pp.72-73). Feltrinelli Editore.
Tutta colpa delle madri: medical bias e pregiudizio implicito
La salute mentale è ed è stata fortemente influenzata, da teorie che incolpavano le donne ( sia per la schizofrenia, che per l’autismo e in generale ogni disturbo del neurosviluppo ).
Per decenni il padre non è mai stato considerato un elemento di crescita, capace di influenzare i comportamenti, le emozioni e la salute mentale dei propri figli.
Le prime teorie sulla madre schizofrenogena erano date solo da supposizioni, idee, osservazioni spesso legati a bias (cioè errori cognitivi) per cui vedevano solo ciò che volevano vedere per confermare la propria teoria.
Nel libro trovate spiegato in modo esplicito come NON VI SIANO STATI studi scientifici per confermare queste teorie. Mimi, la madre dei ragazzi, ad ogni incontro con medici e psichiatri sentiva solo accuse nei suoi confronti: lei era la causa di tutti quei figli schizofrenici.
Questo l’ha portata a non fidarsi dei medici, a nascondere la realtà vissuta dai propri figli e ad affidarsi a sedicenti guaritori, che però non l’avrebbero accusata di essere una pessima madre.
Questo accadeva a metà del secolo scorso ed ha influenzato moltissimo l’idea della malattia mentale : non è prevedibile, è pericolosa, non è curabile ed è tutta colpa delle madri.
Dire che la salute mentale è femminismo, significa comprendere quanto i ruoli sociali, le identità prestabilite dalla società, influenzano il modo in cui vediamo una donna e il ruolo che ricopre. In tutto il libro nessuno chiede in modo esplicito a Mimi se aveva subito traumi (emergono alla fine su richiesta di una figlia), se avesse bisogno di aiuto per gestire quei 12 figli, o semplicemente cosa voleva.
Sicuramente la descrizione che ne emerge sembra avvallare la teoria della madre schizofrenogena: Mimi è sempre rigida, decisa, incapace all’ascolto, pronta a criticare i figli o a snocciolare frasi fatti come insegnamenti personali. Questo non è altro che il risultato ambientale sociale in cui Mimi incarna la donna americana della sua epoca. Mimi si annienta per lasciare al marito il lavoro dei suoi sogni, si azzera per poi addossare ai figli i suoi desideri mai realizzati (musica e balletto) Mimi diventa la donna che tutti si aspettano ma nessuno, si cura della sua salute mentale.
femminismo e prevenzione
Fare prevenzione significa osservare la società e le richieste che una determinata società impone alle donne, significa vedere tutto l’insieme per poter offrire un insieme di proposte utili per sostenere la salute mentale delle donne madri.
Ad esempio: sostegno alla genitorialità, consapevolezza dei propri desideri e delle imposizioni, spazi di sostegno psicologico ed ascolto. Se Mimi avesse potuto avere anche solo una parte di questi servizi, forse avrebbe potuto aiutare meglio se stessa e i suoi figli, forse si sarebbe sentita ascoltata e non colpevole.
prevenzione, adolescenza: fattori di rischio e fattori protettivi
Ognuno di loro fece esperienza della malattia in maniera diversa: Donald, Jim, Brian, Joseph, Matthew e Peter soffrirono ognuno di sintomi differenti, richiesero trattamenti diversi e una varietà di diagnosi mutevoli, e generarono teorie contrastanti sulla natura della schizofrenia.
I 6 fratelli che ricevono e vivono una diagnosi psichiatrica, vedono l’insorgere dei sintomi durante l’adolescenza. Ognuno in modo diverso, ma tutti hanno in comune una forte aggressività: “Poi i giochi cambiavano. Donald colpiva i suoi fratelli sulle braccia, dritto sul muscolo, dove faceva più male. E poi cominciò a organizzare combattimenti. Michael contro Richard, Richard contro Joseph. Diceva a due fratelli di tener fermo un terzo mentre gli tirava delle sventole, poi li obbligava a fare altrettanto, a turno, contro il fratello indifeso e prigioniero. L’ordine, per alcuni dei suoi fratelli più piccoli, era indimenticabile: “Se non lo picchiate, e con forza, i prossimi sarete voi”.
Leggendo le abitudini presenti in questa famiglia, si legge ancora una volta il desiderio di rispettare la convenzione sociale ma non di fermarsi a parlare e ascoltare l’altro. Vengono descritti giochi fisici e violenti, abusi sessuali che i fratelli maggiori compivano sui minori, e questo non a causa della malattia, ma a causa di una assente educazione ( trovate qui un ottimo approfondimento di Annalisa Falcone, pedagogista femminista esperta in questo ambito, https://annalisafalcone.it/2021/04/08/come-insegniamo-involontariamente-la-cultura-dello-stupro-a-bambinə-e-adolescenti/ ).
Dal libro si evince una determinazione biologica alla schizofrenia, ma studi recenti hanno evidenziato quanto la prevenzione sociale, emotiva e culturale, siano fondamentali per migliorare l’eventuale decorso della schizofrenia, e la ricoveri successiva.
le relazioni: fattori di rischio o fattori protettivi?
Una migliore consapevolezza di sé, delle proprie emozioni, la capacità di dire ciò che si pensa e si prova, di affermare la propria volontà in modo positivo, sicuramente avrebbe influito sulle violenze effettuate e subito. Nessun dei ragazzi ne parla se non da adulto, questo perchè sapevano di essere in un contesto sociale e famigliare in cui la loro voce non sarebbe stata ascoltata. Sapevano che sarebbero stati etichettati come “femminucce… lamentosi…vili” sapevano che sarebbero usciti dagli schemi sociali imposti.
Nessun professionista dell’epoca era riuscito a valutare eventuali fattori di rischio e di protezione, non si hanno informazioni sulle loro relazioni all’esterno della famiglia o a scuola, se non legate ai voti presi o all’essere esclusi dopo l’esordio della schizofrenia. O meglio leggiamo dai dati quanto le attività performative, fossero decisamente più importanti di quelle relazionali!
la salute mentale è politica
“I ricchi hanno queste opportunità e i poveri no,” disse Lindsay. “Vedere questo ragazzino cambiare rotta e riuscire a farcela… be’, avrebbe potuto benissimo andare diversamente. Credo sinceramente che se i miei fratelli avessero avuto occasione di fare qualcosa del genere, forse non si sarebbero ammalati così.”
Queste sono le parole con cui Lindsay, la piccola Mary, che decide di cambiare il proprio nome da ragazza, per fuggire a ciò che ha vissuto. Parla di suo figlio, che ha fatto seguire sin da bambino per il timore che un gene della schizofrenia, rendesse anche lui, irriconoscibile come i suo fratelli.
Il figlio riesce a imparare a gestire le proprie emozioni, a riconoscerle e a vivere assieme alle sue fragilità…ma, non tutti possono permetterselo. Lindsay, diventa una donna benestante grazie al suo lavoro, questo le permette le migliori cure, ma significa anche che molti altri non potranno avere le stesse cure. Significa che la prevenzione non è per tutti e che quindi la politica deve occuparsene.
conclusioni
Questo articolo è decisamente più lungo degli altri, e se siete arrivati fino a qui meritate una conclusione davvero degna di questo nome. I temi trattati in questo libro sono davvero tantissimi, vanno dall’educazione alla sociologia alla psichiatria, parla di farmacologia, di politica e di religione. È difficile racchiudere tutto in un articolo, ma anche solo iniziare alcune riflessioni su questi punti, collegarle alla nostra realtà italiana del 2022, ci può far capire quanto si è fatto e quanto ancora ci sia da fare, quanto la storia di una famiglia così fuori dagli schemi, sia una corretta metafora per ogni società, piccola o grande che sia.
Parlare di depressione in adolescenza, porta al suo interno una serie di pregiudizi che vediamo tutti espressi in questo cortometraggio:
“è solo un adolescente….non è depressa quindi non è pazza come tua madre…puoi fare qualcosa, smettila di comportarti così!” ciò che si tende a pensare spesso, quasi sempre, è l’idea che in adolescenza non si possa e non di debba essere depressi!
Questo dipende da alcuni retaggi storico sociali; dall’800 la depressione era dichiarata dai primi psicologi e psichiatri come uno stato di grande tristezza , specie nelle donne e la cui causa era legata a un trauma passato. Assieme a questa l’idea più poetica per cui la letteratura ci ha descritto autori e personaggi dei romanzi, depressi, ma sempre rigorosamente adulti e con traumi da superare.
Nel ‘900 la depressione inizia ad essere vista anche come un aspetto sociale, o meglio un derivato della società, in cui la parte economica la fa da padrone… e parliamo sempre e ancora una volta di adulti.
Tutti questi aspetti hanno permesso di interiorizzare l’idea errata che la depressione sia solo ed esclusivamente un disturbo degli adulti e che ha delle cause precise e condivise. Per cui “ti è permesso essere depresso se hai determinati motivi validi e condivisibili!”.
depressione in adolescenza
Questo cortometraggio spiega e mostra in modo evidente quanto invece, la depressione si un problema importante anche in adolescenza.
La depressione è un disturbo psichico in cui coesistono problemi biologici (calo di serotonina, dopamina e noradrenalina), personali e sociali (ambiente, livello di benessere economico, socialità…). Non sempre è reattivo, cioè causato da un evento principale come un trauma o un lutto, ma può essere causato da aspetti internalizzati come pensieri, idee ed emozioni svalutanti.
Osservare eventuali cambiamenti nei comportamenti dei ragazzi e delle ragazze, è già un primo punto di partenza per andare verso un cambiamento che permetta di sentirsi meglio.
Un errore comune è quello di pensare ai sintomi che vediamo, in ottica adulta, sminuendo di fatto la parte affettiva ed emotiva della persona. Ad esempio: “ma di cosa ti lamenti che hai tutto! Se sei depresso tu io cosa dovrei dire? Non ti manca niente! Se ti impegni vedrai che starai meglio!” . E sì, è molto probabile che tutti noi lo abbiamo detto o pensato almeno una volta nella nostra vita adulta.
non è l’eta che determina la sofferenza emotiva
Occorre mettersi nei panni dell’altro, percepire la sua sofferenza emotiva e non solo cercare oggettivamente un qualcosa a cui ricondurla, un vero e chiaro motivo che ti permetta di sentirti triste. Dobbiamo sentire la tristezza e non giustificarla. Siamo chiamati come adulti ad accogliere ciò che l ragazza o il ragazzo sente, prima che questa tristezza invada in modo totalizzante la vita di chi la subisce.
Nel cortometraggio possiamo vedere i genitori come figure opposte: la madre che nota e sente le difficoltà della figlia, e il padre che vorrebbe cancellare in modo rapido e veloce queste frivolezze adolescenziali…che sono però influenzate dalla presenza di una “nonna pazza”, che probabilmente è una donna che soffre di depressione. Questo ci riconduce agli stereotipi di cui avevo parlato qui https://www.serenaneri.it/la-vera-storia-della-strega-cattiva-pregiudizi-e-realta/
Entrambi si accorgono della sofferenza, quando la ragazza commette il gesto più visibile e concreto di tagliarsi e cercare di non sentire più il proprio dolore.
il dolore è reale, concreto, pesante e sembra invincibile
Questo è quello che ci porta a vedere il cortometraggio, la realtà del dolore, in cui ogni avvicinamento dell’altro sembra inutile. Un dolore che invade e pervade ogni aspetto della vita personale: scuola, famiglia, amicizie. Al termine del cortometraggio, la protagonista chiede di essere vista, lo chiede a nome di tutti gli altri e le altre adolescenti che soffrono e che spesso sentono sminuire il loro dolore. Hanno bisogno di essere ascoltati, accolti.
Ecco da cosa possiamo partire, tutti, non solo chi si occupa per lavoro di salute mentale. Come esistono sintomi visibili che possono farci capire che è in atto un infarto o un calo glicemico, abbiamo il dovere di conoscere anche i sintomi che possono rappresentare l’inizio di depressione in adolescenza. Conoscerli e vederli è il primo passo per poi poterci rivolgere a uno specialista.
Non occorre che tutti i sintomi siano tutti presenti, basta anche solo uno di questi per poter prevenire stati depressivi maggiori o gesti più estremi.
sintomi più comuni
Tristezza o disperazione
Irritabilità, rabbia, ostilità
Frequenti pianti
Distacco da amici e parenti
Perdita di interessi
Difficoltà a dormire, dorme di più o molto di meno, e cambiamenti nel comportamento alimentare (diminuzione o aumento dell’appetito)
Agitazione, difficoltà nel rimanere fermo, oppure al contrario rallentamento nei movimenti e nel pensiero ( più lento a rispondere, risolvere problemi quotidiani)
Senso di colpa, inutilità
Mancanza di entusiasmo e motivazione
Affaticamento, debolezza
Difficoltà di concentrazione
Pensieri di morte, idee suicidarie (l’idea della prevenzione è arrivare prima che questi emergano!)
Sarebbe fondamentale sviluppare siti, applicazioni e canali social che possano aiutare i ragazzi a mettersi in contatto in modo rapido e immediato con professionisti in grado di aiutarli, linee di intervento capillari su tutto il paese, che possano dare prime indicazioni su come agire concretamente in caso di pensieri depressivi o pensieri estremi.
Per ora il Telefono Azzurro, resta la linea più presente e affidabile in caso si senta la necessità di parlare con qualcuno dei propri pensieri, puoi trovare qui tutte le informazioni https://azzurro.it/cosa-facciamo/
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